C'è un filo sottile che da Carpi si dipana fino ai palazzi di giustizia di Bologna, passando per le strade di Reggio Emilia e Brescello dove nel lontano 1992 due uomini persero la vita in quello che sembrava un regolamento di conti tra cosche rivali, ma che in realtà raccontava una storia molto più grande: l'infiltrazione della 'ndrangheta nel cuore dell'Emilia. Ieri mattina, la Corte d'Assise d'Appello di Bologna ha scritto la parola fine su una vicenda che ha tenuto banco per oltre trent'anni. Il processo "Aemilia 92" - così chiamato per distinguerlo dal più noto maxiprocesso Aemilia che ha scoperchiato il vaso di Pandora della criminalità organizzata nella nostra regione - si è concluso con tre ergastoli e una condanna che ci riguarda da vicino: Antonio Lerose, residente a Carpi, si è beccato diciotto anni di galera. Una sentenza che arriva dopo un percorso giudiziario degno di un romanzo giallo. Prima tutti assolti, poi tutti condannati all'ergastolo, quindi la Cassazione che rimescola le carte e ordina un nuovo processo d'appello. Una giostra della giustizia che ha fatto girare la testa a tutti, ma che alla fine ha portato a casa il risultato: ergastolo per il boss Nicolino Grande Aracri, Antonio Ciampà e Angelo Greco, diciotto anni per Lerose con le attenuanti generiche che hanno pesato più delle aggravanti. Ma facciamo un passo indietro nel tempo, quando l'autunno del 1992 si tingeva di sangue. Nicola Vasapollo, 33 anni, viene ammazzato il 21 settembre nella sua casa di Pieve mentre stava scontando i domiciliari. Un mese dopo, il 22 ottobre, tocca a Giuseppe Ruggiero, 35 anni, anche lui ai domiciliari a Brescello. I killer, in quest'ultimo caso, si presentano travestiti da carabinieri, con tanto di divise e auto che sembrava una gazzella delle forze dell'ordine. Un copione che fa venire i brividi, perché dimostra quanto fosse sofisticata e radicata questa organizzazione criminale. E qui entra in scena Carpi. Perché i killer, per organizzare questi delitti, non si erano mica nascosti chissà dove. Avevano scelto il nostro territorio, tra Carpi e Modena, per tessere la loro ragnatela di morte. Un appartamento con ufficio in via Ugo da Carpi era diventato il loro quartier generale, il nascondiglio perfetto per pianificare entrambi i delitti. A Modena, invece, avevano un altro covo in strada San Faustino. Il territorio emiliano, negli anni Novanta, stava diventando terra di conquista per la 'ndrangheta calabrese. Non più la mafia dei sequestri e del pizzo, ma una criminalità in giacca e cravatta, come l'hanno definita gli investigatori dell'operazione Aemilia. Una mafia 2.0 che invece di sparare preferiva corrompere, infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni, nelle imprese, nel tessuto sociale. L'avvocato Vincenza Rando, che rappresenta l'associazione Libera (alla quale il tribunale ha riconosciuto una provvisionale di diecimila euro), ha colto nel segno: "Si tratta di una sentenza importante, frutto di un lavoro profondo e rigoroso. Ha dato a noi cittadini e al territorio una verità su come la 'ndrangheta si era insediata e commetteva reati gravi, forse perché c'era una sottovalutazione, una non capacità di lettura". Ecco il punto. La 'ndrangheta in Emilia non è mai stata percepita come un pericolo reale, almeno fino a quando l'operazione Aemilia del 2015 non ha squarciato il velo. Ma i fatti del 1992 ci dicono che i tentacoli erano già qui, tra le nostre case, i nostri uffici, le nostre strade. E Antonio Lerose, il carpigiano che pensava di poter giocare con il fuoco senza scottarsi, ora sa quanto costa quella sottovalutazione: diciotto anni di galera per aver creduto che la 'ndrangheta fosse solo un affare calabrese. La verità, come sempre, ha un sapore amaro. Ma è una verità che ci appartiene e che dobbiamo custodire, perché solo conoscendo il passato possiamo costruire un futuro in cui la democrazia e la legalità non siano solo parole scritte sui manuali, ma valori vissuti ogni giorno nelle nostre comunità.
Giustizia con il sapore dell'Emilia: diciotto anni al carpigiano che voleva giocare con la 'ndrangheta